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Il Governo Meloni alla ricerca di soluzioni alternative per i centri migranti in Albania

Il progetto del governo Meloni di creare centri di accoglienza per migranti in Albania, avviato quasi un anno e mezzo fa, si è rivelato un clamoroso fallimento. Nonostante l’iniziale entusiasmo, la realtà dei centri operativi dal mese di ottobre 2024 è ben diversa dalle aspettative. Dopo quattro mesi di attività, i risultati sono deludenti: poche decine di migranti sono stati effettivamente trasferiti in Albania, ma, a causa di problematiche legate alla loro condizione o alla sicurezza dei loro Paesi di origine, quasi tutti sono stati riportati in Italia in pochi giorni. La maggior parte delle persone trasferite, infatti, erano o minorenni, o vulnerabili, oppure appartenenti a nazionalità per le quali i giudici italiani hanno ritenuto che il rimpatrio non fosse sicuro. Questo ha portato a una serie di ricorsi e interventi giudiziari, che hanno messo in luce le criticità del sistema pensato dal governo. In particolare, i centri in Albania sono rimasti vuoti per la maggior parte del tempo, alimentando la frustrazione dell’esecutivo che ha visto vanificato l’intento iniziale di creare un deterrente contro l’immigrazione irregolare.

Con la Corte di giustizia dell’Unione Europea che si appresta a pronunciarsi in merito al funzionamento di questi centri il prossimo 25 febbraio, il governo italiano sta riflettendo su come muoversi per superare le difficoltà. Una delle soluzioni che sta valutando è quella di trasformare le strutture albanesi in Centri di Permanenza per i Rimpatri (Cpr). Una mossa che, secondo i retroscena, potrebbe semplificare le procedure e aggirare le problematiche legate ai tribunali italiani. L’idea di trasformare i centri albanesi in Cpr nasce dalla necessità di risolvere il problema dell’inadeguatezza del sistema attuale. Se venissero riconosciuti come Cpr, i centri in Albania ospiterebbero migranti irregolari già arrivati in Italia e sottoposti a un decreto di espulsione. A differenza dei centri di accoglienza, dove le persone sono trattenute in attesa di una valutazione del loro caso, i Cpr sono destinati a chi deve essere rimpatriato, eliminando la necessità di una convalida da parte dei giudici.

Questa trasformazione potrebbe anche evitare ulteriori bocciature da parte dei tribunali italiani, che in passato hanno spesso annullato il trattenimento dei migranti in Albania, ritenendo che le condizioni di sicurezza non fossero adeguate. Se il progetto dovesse proseguire in questa direzione, il governo spera di ridurre l’incertezza giuridica che ha finora ostacolato l’attuazione dei centri albanesi. Se la proposta di trasformare i centri in Cpr venisse adottata, sarebbe però una versione ridotta rispetto a quanto inizialmente previsto dal governo Meloni. Quello che doveva essere un grande progetto di deterrenza migratoria rischia di ridursi a una mera riorganizzazione delle strutture già esistenti. In sostanza, i centri in Albania non sarebbero più luoghi di prima accoglienza e gestione dei migranti appena arrivati, ma semplici centri di detenzione temporanea per chi deve essere rimpatriato.

In Italia, esistono già nove Cpr, ma il sistema è oggetto di critiche per le condizioni di detenzione e per l’efficacia nel favorire effettivi rimpatri. Nonostante l’impegno del governo Meloni a incrementare il numero di Cpr, il progetto è rimasto sostanzialmente fermo. Inoltre, il trattamento delle persone detenute nei Cpr è spesso oggetto di denunce per condizioni di vita inadeguate, incertezza riguardo alla durata del trattenimento e la mancanza di un processo giuridico trasparente.

Oltre alla possibile trasformazione dei centri albanesi, il governo italiano sta anche guardando alla futura riforma del Patto migratorio e di asilo dell’Unione Europea, prevista per il 2026. Le nuove norme europee potrebbero semplificare le procedure e favorire una gestione più efficiente dei migranti, soprattutto per quanto riguarda i Paesi considerati sicuri. Se questa riforma dovesse entrare in vigore, il governo Meloni potrebbe trovarsi in una posizione più favorevole per rafforzare le sue politiche migratorie.

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