Il Caso Almasri: tra diplomazia, giustizia e polemiche politiche
Il recente arresto e la successiva scarcerazione del generale libico Njeem Osema Almasri hanno scatenato un acceso dibattito politico e diplomatico in Italia e a livello internazionale. La vicenda, che coinvolge anche la Corte Penale Internazionale (CPI), ha sollevato interrogativi sulla gestione del caso da parte del governo italiano, portando persino all’apertura di un’inchiesta nei confronti della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni e di alcuni ministri del suo esecutivo.
Per la prima volta, un esponente del governo ha espresso apertamente le preoccupazioni politiche legate alla detenzione di Almasri. Il viceministro degli Esteri Edmondo Cirielli, rispondendo a Fanpage.it, ha sottolineato le possibili ripercussioni diplomatiche di un suo arresto prolungato, lasciando intendere che la sua permanenza in carcere avrebbe potuto destabilizzare ulteriormente la Libia. “È evidente che quando un alto esponente di un governo riconosciuto a livello internazionale viene arrestato con accuse così gravi, ciò può destabilizzare ulteriormente un Paese già in difficoltà”, ha dichiarato Cirielli. Pur non confermando direttamente un collegamento tra queste valutazioni e la decisione di scarcerarlo, ha fatto un paragone significativo: “È come se qualcuno arrestasse Putin o il capo di Stato Maggiore della Russia… Si tratta di un’azione che ha delle conseguenze”.
Njeem Osema Almasri, nato a Tripoli nel 1979, è un alto ufficiale libico a capo della Polizia giudiziaria e responsabile della prigione di Mitiga, una struttura tristemente nota per le gravi violazioni dei diritti umani. La CPI lo accusa di crimini di guerra e contro l’umanità, tra cui torture, stupri, omicidi e persecuzioni ai danni di detenuti politici, sospetti terroristi e migranti intercettati in mare. Le indagini su di lui risalgono al 2011 e riguardano episodi di abusi avvenuti proprio all’interno del carcere di Mitiga, sotto il controllo della milizia islamista Rada. Il 18 gennaio, la CPI ha emesso un mandato di cattura contro Almasri, portando al suo arresto a Torino da parte della Digos mentre assisteva alla partita Juventus-Milan. Tuttavia, la comunicazione ufficiale dell’arresto alle autorità di Roma è arrivata solo il 20 gennaio. Il Ministero della Giustizia ha confermato la detenzione il giorno successivo, specificando che il ministro Carlo Nordio stava ancora valutando la trasmissione formale della richiesta della CPI.
Nonostante la gravità delle accuse, la Corte d’Appello di Roma ha ritenuto irregolare il fermo, sostenendo che fosse avvenuto senza il coinvolgimento del Ministero della Giustizia, organo preposto alla gestione dei rapporti con la CPI. Questo vizio procedurale ha portato alla scarcerazione immediata di Almasri, permettendogli di tornare in Libia e sfuggire così al giudizio della Corte dell’AiaLa gestione del caso ha suscitato polemiche non solo a livello internazionale, ma anche interno. La CPI ha sottolineato che, in base alle normative internazionali, l’Italia avrebbe dovuto consegnare immediatamente il generale libico senza margini di ritardo. Il mancato rispetto di questa procedura ha portato all’apertura di un’inchiesta per favoreggiamento personale e peculato nei confronti della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, del ministro della Giustizia Carlo Nordio, del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e del sottosegretario Alfredo Mantovano.
Per la prima volta, un esponente del governo ha espresso apertamente le preoccupazioni politiche legate alla detenzione di Almasri. Il viceministro degli Esteri Edmondo Cirielli, rispondendo a Fanpage.it, ha sottolineato le possibili ripercussioni diplomatiche di un suo arresto prolungato, lasciando intendere che la sua permanenza in carcere avrebbe potuto destabilizzare ulteriormente la Libia. “È evidente che quando un alto esponente di un governo riconosciuto a livello internazionale viene arrestato con accuse così gravi, ciò può destabilizzare ulteriormente un Paese già in difficoltà”, ha dichiarato Cirielli. Pur non confermando direttamente un collegamento tra queste valutazioni e la decisione di scarcerarlo, ha fatto un paragone significativo: “È come se qualcuno arrestasse Putin o il capo di Stato Maggiore della Russia… Si tratta di un’azione che ha delle conseguenze”.
Njeem Osema Almasri, nato a Tripoli nel 1979, è un alto ufficiale libico a capo della Polizia giudiziaria e responsabile della prigione di Mitiga, una struttura tristemente nota per le gravi violazioni dei diritti umani. La CPI lo accusa di crimini di guerra e contro l’umanità, tra cui torture, stupri, omicidi e persecuzioni ai danni di detenuti politici, sospetti terroristi e migranti intercettati in mare. Le indagini su di lui risalgono al 2011 e riguardano episodi di abusi avvenuti proprio all’interno del carcere di Mitiga, sotto il controllo della milizia islamista Rada. Il 18 gennaio, la CPI ha emesso un mandato di cattura contro Almasri, portando al suo arresto a Torino da parte della Digos mentre assisteva alla partita Juventus-Milan. Tuttavia, la comunicazione ufficiale dell’arresto alle autorità di Roma è arrivata solo il 20 gennaio. Il Ministero della Giustizia ha confermato la detenzione il giorno successivo, specificando che il ministro Carlo Nordio stava ancora valutando la trasmissione formale della richiesta della CPI.
Nonostante la gravità delle accuse, la Corte d’Appello di Roma ha ritenuto irregolare il fermo, sostenendo che fosse avvenuto senza il coinvolgimento del Ministero della Giustizia, organo preposto alla gestione dei rapporti con la CPI. Questo vizio procedurale ha portato alla scarcerazione immediata di Almasri, permettendogli di tornare in Libia e sfuggire così al giudizio della Corte dell’AiaLa gestione del caso ha suscitato polemiche non solo a livello internazionale, ma anche interno. La CPI ha sottolineato che, in base alle normative internazionali, l’Italia avrebbe dovuto consegnare immediatamente il generale libico senza margini di ritardo. Il mancato rispetto di questa procedura ha portato all’apertura di un’inchiesta per favoreggiamento personale e peculato nei confronti della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, del ministro della Giustizia Carlo Nordio, del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e del sottosegretario Alfredo Mantovano.