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Cronaca

Gaza sotto le bombe: fame, disperazione e una comunità lasciata sola

Tutto ciò che ci ha tenuti su di morale negli ultimi mesi è stata l’illusione che il mondo si sarebbe svegliato”, scrive con amarezza Mohammed Almajdalawi, operatore umanitario palestinese rifugiato in Italia. Le sue parole, come quelle di tanti altri testimoni, raccontano una realtà che va ben oltre i numeri e le dichiarazioni ufficiali: una catastrofe umanitaria senza precedenti si sta consumando nella Striscia di Gaza, nel silenzio assordante della comunità internazionale. A 579 giorni dall’inizio di un conflitto che ha devastato ogni aspetto della vita nella Striscia, il bilancio non è più solo quello dei morti – oltre 35.000 secondo le stime più recenti – ma è anche quello degli affamati, degli sfollati, degli annientati nel corpo e nell’anima. “Chi è fortunato riesce a mangiare una volta ogni tre giorni”, denuncia Sami Abuomar, operatore umanitario dell’ONG italiana ACS, ancora presente a Gaza. “Negli ultimi tre giorni sono state uccise più di 300 persone. Bombardano ovunque. Chiunque si muova diventa un bersaglio”.

La situazione si è ulteriormente aggravata con l’inizio dell’”Operazione carri di Gedeone”, annunciata dall’esercito israeliano come “decisiva” per la conquista di aree strategiche della Striscia. Secondo gli attivisti e i sopravvissuti, si tratta di un’escalation finale di un piano sistematico di distruzione e sfollamento della popolazione civile palestinese. Dall’alba, le forze israeliane stanno invadendo l’est di Gaza, bombardando incessantemente le ultime case rimaste in piedi. Oltre 19.000 persone sono state costrette a fuggire solo negli ultimi giorni, spesso con nient’altro che i vestiti che indossavano, come riferisce l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni. La testimonianza del pizzaiolo Mohamed Alamarin, diventato noto per aver continuato a cucinare pizze per i bambini con i pochi ingredienti rimasti, è un grido disperato lanciato attraverso i social: *“La fame non è più solo un sentimento, è nell’aria, negli sguardi, nelle poche conversazioni che abbiamo tra un bombardamento e l’altro”*. I suoi post, carichi di dolore ma anche di resilienza, raccontano un’umanità che si aggrappa a ogni gesto, ogni abbraccio, ogni brandello di calore nel mezzo di un inferno fatto a mano. Israele ha emesso nuovi ordini di evacuazione per le popolazioni del nord e dell’est di Gaza, costringendole a dirigersi verso sud, in aree che vengono dichiarate “sicure” ma che vengono regolarmente bombardate. “Ci stanno obbligando a un’altra ondata di sfollamenti verso zone che in realtà sono trappole mortali”, dice Sami Abuomar. Senza trasporti, esausti e feriti, migliaia di persone sono costrette a camminare per chilometri, mentre i droni e gli aerei sorvolano minacciosi le loro teste.

“Il mondo ci guarda morire di fame. L’Europa e l’America parlano tanto, ma non fanno niente”*, accusa Abuomar. Le sue parole trovano eco in quelle di Almajdalawi, che lancia un atto d’accusa diretto contro le istituzioni internazionali: *“Questo mondo spregevole non è solo incompetente, è complice diretto del nostro assassinio”. E mentre i governi occidentali continuano a esprimere “preoccupazione”, la rete americana NBS rivela che l’ex amministrazione Trump starebbe lavorando a un piano di deportazione di massa di un milione di palestinesi verso la Libia, come se il destino della popolazione di Gaza potesse essere deciso a tavolino, lontano dai crateri, dal sangue e dalle macerie. Nonostante tutto, Gaza resiste. “Nonostante tutto, non scompariamo, non cancellati. C’è un battito che si rifiuta di arrendersi, di dimenticare che siamo umani, che meritiamo di vivere”*, scrive Alamarin. Sono parole che restano, che pungono la coscienza di chi legge. Parole che ricordano che dietro ogni numero c’è una storia, un nome, un volto.

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