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Donne in stato di gravidanza e lavoro. Discriminazioni di genere o parità di trattamento?

di Anna Maria Verrengia

Il mancato rinnovo di un contratto a termine ad una lavoratrice che si trovi in stato di gravidanza ben può integrare una discriminazione basata sul sesso, ove risulti che il datore di lavoro abbia concesso il rinnovo dei contratti a tutti i colleghi nelle medesime condizioni contrattuali e non lo abbia, invece, riconosciuto alla lavoratrice a causa del suo stato di gravidanza. Cassazione civile sentenza n. 5476 del 26 febbraio 2021.
Il caso.

IL TRIBUNALE

il Tribunale di Roma accoglieva la domanda di una lavoratrice, in stato di gravidanza, finalizzata alla dichiarazione della natura discriminatoria della mancata concessione della proroga del contratto a tempo determinato, proroga invece concessa a tutti gli altri colleghi che si trovavano nella stessa condizione contrattuale. La Corte d’Appello invece, riteneva infondata la pretesa relativa alla dedotta illegittimità della mancata proroga del contratto, adducendo che la lavoratrice non avesse fornito alcuno specifico elemento idoneo a provare la lamentata discriminazione e che in particolare non avesse fornito elementi circa le proroghe ovvero le stipule di nuovi contratti da parte degli altri colleghi, che solo avrebbero consentito di ritenere integrata la discriminazione. È stato così proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione che ha cassato con rinvio la sentenza impugnata, ritenendo che il mancato rinnovo del contratto a termine alla lavoratrice in stato di gravidanza ben può considerarsi discriminatorio. Più specificamente gli Ermellini hanno richiamato le direttive europee contro le discriminazioni fondate sul sesso. In particolare, l’art. 157 del TFUE sancisce l’obbligo della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile e stabilisce un fondamento giuridico generale per l’adozione di misure riguardanti l’uguaglianza di genere, incluse la parità e la lotta alla discriminazione sulla base della gravidanza o della maternità sul luogo di lavoro.

LA CARTA DELL’UE

L’art. 33, paragrafo 2, della Carta dell’UE afferma che: «Al fine di poter conciliare vita familiare e vita professionale, ogni individuo ha il diritto di essere tutelato contro il licenziamento per un motivo legato alla maternità e il diritto a un congedo di maternità retribuito e a un congedo parentale dopo la nascita o l’adozione di un figlio». Nel nostro ordinamento poi il d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna) si è specificamente occupato del comportamento discriminatorio fondato sul sesso ed ha promosso, sul piano sostanziale, le pari opportunità di carriera e di lavoro tra i sessi. Il D.Lgs. 25 gennaio 2010, n. 5 ha, poi, dato attuazione alla direttiva 2006/54/CE, relativa al principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego. in base alla quale per escludere la natura discriminatoria della condotta, spetta al datore di lavoro provare in giudizio quali siano state le «circostanze inequivoche» che hanno determinato la decisione di non rinnovare il contratto alla donna. Alla luce di queste direttive la Cassazione ha riconosciuto alla donna in stato di gravidanza – alla quale è stato negato il rinnovo del contratto di lavoro a termine – di godere di un regime probatorio agevolato davanti al giudice del Lavoro al quale avrà proposto ricorso contro la mancata proroga. Difatti la donna dovrà semplicemente provare il suo stato di gravidanza e lamentare la discriminazione mentre sarà il datore di lavoro, a differenza di quanto sancito dalla Corte d’Appello, a dover fornire una specifica e valida prova di non averla discriminata per le sue condizioni di gravidanza o di maternità.

IL CONCETTO DI PARITA’ OGGI

Ma a ben vedere in una realtà, come quella odierna, dove modernità e tecnologia sono i capisaldi della nostra società, sembra paradossale dover parlare ancora di discriminazioni tra uomini e donne. Sebbene l’art. 37 della Costituzione enunci che “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore” le barriere legali che limitano l’accesso delle donne al mondo del lavoro e ristringono la possibilità di arrivare ad una vera equità di genere di fatto permangono.
Alla luce di tali brevi considerazioni allora è possibile affermare che sebbene questa pronuncia non abbia eliminato la discriminazione di genere, può certamente considerarsi come un piccolo contributo, una sia pur piccola goccia tesa alla definizione di quel percorso, tortuoso certamente, volto alla completa soddisfazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego. Ma a ben vedere una goccia in più cambia comunque il peso del mare.

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