Prostituzione, Forza Italia propone la riapertura delle case chiuse
A 66 anni dalla storica approvazione della Legge Merlin, Forza Italia propone una rivoluzione normativa che potrebbe cambiare radicalmente il modo in cui l’Italia affronta la prostituzione. Il senatore Claudio Fazzone ha presentato in Senato un disegno di legge che mira a regolamentare il lavoro sessuale attraverso la riapertura delle case di prostituzione, autorizzate e controllate dallo Stato. Il testo, visionato da Fanpage.it, non si limita alla depenalizzazione, ma riscrive l’intero impianto normativo: registri, autorizzazioni, controlli fiscali e sanitari, nuovi reati e persino una rete digitale regolamentata. Una proposta ambiziosa, ma anche carica di contraddizioni e rischi.
Il ritorno delle case chiuse: libertà o nuova ghettizzazione?
Il cuore del ddl è l’articolo 3, che prevede la reintroduzione delle case di tolleranza. Potranno essere gestite da privati, ma solo con autorizzazione di pubblica sicurezza. I lavoratori e le lavoratrici del sesso dovranno registrarsi presso appositi elenchi custoditi dalle autorità. Lo Stato dunque non si limita a tollerare: organizza, monitora, tassa. In teoria per tutelare, in pratica con il rischio di creare nuove forme di sorveglianza e discriminazione. In un contesto ancora segnato da stigma e marginalità, quanto può essere sicura e volontaria una registrazione pubblica?
Il testo promette privacy e diritto all’oblio, ma non specifica chi avrà accesso ai dati né come saranno protetti. L’impressione è che la tutela sia più teorica che reale, soprattutto in assenza di garanzie operative e risorse dedicate. Nessun riferimento, per esempio, a come saranno coinvolti i servizi sociali o i centri antiviolenza. Nessun accenno a percorsi di uscita per chi vuole abbandonare la prostituzione.
Una legge in conflitto con la Costituzione?
Il punto critico più rilevante riguarda la legittimità costituzionale. La Corte costituzionale, nella sentenza n. 141 del 2019, ha stabilito che la prostituzione, pur non essendo vietata, non può essere promossa o regolamentata dallo Stato come una normale attività economica. La cosiddetta “libera scelta” di prostituirsi – fondamento della proposta Fazzone – viene messa in dubbio dalla Corte stessa, che evidenzia come tale scelta sia spesso condizionata da diseguaglianze sociali ed economiche.
Lo stesso disegno di legge sembra inciampare in questa ambiguità: l’articolo 1 parla di attività volontaria e consapevole, ma l’articolo 17 punisce chi induce alla prostituzione “approfittando di situazioni di bisogno economico”. Allora viene da chiedersi: in che misura è davvero “libera” una scelta fatta in condizioni di necessità?
Controlli, reati e digitale: un impianto incompleto
Il ddl introduce anche una serie di nuove disposizioni su pagamenti online, siti web e piattaforme di promozione del lavoro sessuale. Ma tutto è rimandato a futuri decreti attuativi del Ministero dell’Interno. Mancano dunque criteri precisi per la fiscalità, la tutela dei dati personali e la supervisione digitale.
Nel frattempo, il testo prevede nuove figure di reato e aggrava le pene per lo sfruttamento o la gestione irregolare delle case chiuse. Ma non è chiaro come queste norme si integrino con le leggi vigenti contro la tratta e lo sfruttamento. Alcune fattispecie si sovrappongono, altre sembrano persino indebolire gli strumenti repressivi attuali.
I servizi sociali? Assenti. Le donne? Invisibili
Un altro nodo irrisolto è l’assenza pressoché totale del welfare. Non sono previsti fondi, percorsi di reinserimento, misure di accompagnamento. Il disegno di legge sembra concepito esclusivamente in una logica regolatoria, senza occuparsi dei contesti reali in cui la prostituzione si esercita: povertà, immigrazione, violenza, emarginazione. Né vengono coinvolti enti locali, Asl, servizi sociali o realtà del terzo settore che da anni lavorano sul campo.
Soprattutto, mancano le voci delle donne. Chi ha scritto questa legge? Chi è stato ascoltato? Non c’è traccia del contributo di chi vive quotidianamente le complessità del sex work. Si parla di corpi, ma non si ascoltano le persone. Si invoca la libertà di scelta, ma senza offrire alternative reali.
Una riforma che rischia di escludere i più fragili
In un Paese dove la prostituzione è ancora largamente stigmatizzata, istituzionalizzare le case chiuse può voler dire creare nuovi ghetti, nuove periferie sociali. L’idea di un’attività sessuale “regolata”, con tanto di registri e controlli, rischia di includere solo chi ha mezzi e protezioni, lasciando ai margini chi non può – o non vuole – entrare nel circuito ufficiale.
Il rischio è duplice: da un lato si normalizza una forma di mercificazione del corpo, senza interrogarsi su cosa ci sia davvero dietro ogni “scelta libera”; dall’altro si produce un sistema che esclude e marginalizza chi resta fuori, senza alcuna rete di sostegno.
Il ritorno delle case chiuse: libertà o nuova ghettizzazione?
Il cuore del ddl è l’articolo 3, che prevede la reintroduzione delle case di tolleranza. Potranno essere gestite da privati, ma solo con autorizzazione di pubblica sicurezza. I lavoratori e le lavoratrici del sesso dovranno registrarsi presso appositi elenchi custoditi dalle autorità. Lo Stato dunque non si limita a tollerare: organizza, monitora, tassa. In teoria per tutelare, in pratica con il rischio di creare nuove forme di sorveglianza e discriminazione. In un contesto ancora segnato da stigma e marginalità, quanto può essere sicura e volontaria una registrazione pubblica?
Il testo promette privacy e diritto all’oblio, ma non specifica chi avrà accesso ai dati né come saranno protetti. L’impressione è che la tutela sia più teorica che reale, soprattutto in assenza di garanzie operative e risorse dedicate. Nessun riferimento, per esempio, a come saranno coinvolti i servizi sociali o i centri antiviolenza. Nessun accenno a percorsi di uscita per chi vuole abbandonare la prostituzione.
Una legge in conflitto con la Costituzione?
Il punto critico più rilevante riguarda la legittimità costituzionale. La Corte costituzionale, nella sentenza n. 141 del 2019, ha stabilito che la prostituzione, pur non essendo vietata, non può essere promossa o regolamentata dallo Stato come una normale attività economica. La cosiddetta “libera scelta” di prostituirsi – fondamento della proposta Fazzone – viene messa in dubbio dalla Corte stessa, che evidenzia come tale scelta sia spesso condizionata da diseguaglianze sociali ed economiche.
Lo stesso disegno di legge sembra inciampare in questa ambiguità: l’articolo 1 parla di attività volontaria e consapevole, ma l’articolo 17 punisce chi induce alla prostituzione “approfittando di situazioni di bisogno economico”. Allora viene da chiedersi: in che misura è davvero “libera” una scelta fatta in condizioni di necessità?
Controlli, reati e digitale: un impianto incompleto
Il ddl introduce anche una serie di nuove disposizioni su pagamenti online, siti web e piattaforme di promozione del lavoro sessuale. Ma tutto è rimandato a futuri decreti attuativi del Ministero dell’Interno. Mancano dunque criteri precisi per la fiscalità, la tutela dei dati personali e la supervisione digitale.
Nel frattempo, il testo prevede nuove figure di reato e aggrava le pene per lo sfruttamento o la gestione irregolare delle case chiuse. Ma non è chiaro come queste norme si integrino con le leggi vigenti contro la tratta e lo sfruttamento. Alcune fattispecie si sovrappongono, altre sembrano persino indebolire gli strumenti repressivi attuali.
I servizi sociali? Assenti. Le donne? Invisibili
Un altro nodo irrisolto è l’assenza pressoché totale del welfare. Non sono previsti fondi, percorsi di reinserimento, misure di accompagnamento. Il disegno di legge sembra concepito esclusivamente in una logica regolatoria, senza occuparsi dei contesti reali in cui la prostituzione si esercita: povertà, immigrazione, violenza, emarginazione. Né vengono coinvolti enti locali, Asl, servizi sociali o realtà del terzo settore che da anni lavorano sul campo.
Soprattutto, mancano le voci delle donne. Chi ha scritto questa legge? Chi è stato ascoltato? Non c’è traccia del contributo di chi vive quotidianamente le complessità del sex work. Si parla di corpi, ma non si ascoltano le persone. Si invoca la libertà di scelta, ma senza offrire alternative reali.
Una riforma che rischia di escludere i più fragili
In un Paese dove la prostituzione è ancora largamente stigmatizzata, istituzionalizzare le case chiuse può voler dire creare nuovi ghetti, nuove periferie sociali. L’idea di un’attività sessuale “regolata”, con tanto di registri e controlli, rischia di includere solo chi ha mezzi e protezioni, lasciando ai margini chi non può – o non vuole – entrare nel circuito ufficiale.
Il rischio è duplice: da un lato si normalizza una forma di mercificazione del corpo, senza interrogarsi su cosa ci sia davvero dietro ogni “scelta libera”; dall’altro si produce un sistema che esclude e marginalizza chi resta fuori, senza alcuna rete di sostegno.


Purtroppo il fenomeno della prostituzione è vecchio come il mondo è un fenomeno che è sempre esistito e con cui ogni tipo di civiltà è destinato a convivere. Attualmente questo fenomeno viene gestito da reti criminali che senza scrupoli sfruttano l’attività di queste persone ma va anche opportunamente detto che l’attività di queste reti rappresenta solamente il 30 per cento La maggior parte infatti dei sex workers sono persone che in totale autonomia hanno deciso di svolgere questo tipo di attività e imprenditoriale. Finalmente lo stato ha la possibilità di regolamentare questo fenomeno inasprendo le pene per coloro che ne approfittano ma dando anche la possibilità a queste persone di poter avere una previdenza e una tutela una dignità che prima non avevano in quanto questa categoria è stata da sempre sigmatizzata. Tra l’altro con la tassazione regolamentata di questa attività lo Stato potrà incassare una montagna di soldi si parla di 6 miliardi ogni anno che vengono persi.. A questo punto ben venga la regolamentazione della prostituzione senza ulteriori moralismi o ipocrisie