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Mi raccomando, raccomandami

NAPOLI (di Luca Delgado) – Nel nostro parlare comune, si contano centinaia di parole prese in prestito dall’inglese. Quelle che hanno a che fare con la tecnologia o con l’economia ad esempio, due settori nei quali siamo fortemente condizionati dall’imperante e sistematica “americanizzazione-anglicizzazione”, spuntano come funghi e costringono in molti a dover ricorrere ai dizionari e/o ad incappare in improbabili pronunce: abort, admin, back up, bluetooth, browser, cookie, database, desktop;

e ancora: dealer, deregulation, broker, spending review, sales manager, fino all’inflazionatissimo spread che sembra essere la causa maggiore di tutti i nostri mali.

stanlio e onlioIl fenomeno linguistico, chiamato prestito appunto, esiste da sempre. L’atteggiamento più diffuso è quello di accettare questi termini per necessità: manca la parola nella nostra lingua, mancano il significante e il significato e allora si procede al prestito. Come ad un livello più basso abbiamo imparato ad usare la parola hot dog, perché dall’Inghilterra abbiamo importato un panino che da noi non esisteva, colmando cosi una lacuna culturale.

Va sottolineato che in Italia, per darsi un tono, si ricorre molto spesso alle parole inglesi, persino per quelle che in realtà potremmo dire nella nostra lingua: hair stylist in luogo di parrucchiere, weekend in luogo di fine settimana, tanto per fare qualche esempio.

Il paradosso è che lo stesso fenomeno avviene con l’inglese (o americano che si voglia): e cioè in inglese, la parlata è tanto più sofisticata quanto più si avvicina al latino e/o all’italiano.

Tralasciando questo particolare, soffermiamoci sui semplici prestiti per necessità, quelli per cui gli inglesi hanno importato il significante e il significato, colmando così una loro lacuna culturale. Anche noi possiamo vantare un’infinità di parole esportate, nei vari settori nei quali eccelliamo: architettura, musica, ballo, letteratura, teatro, cucina e moda. Provate a chiedere di un ristorante al fresco, magari per mangiare un piatto di pasta al dente. Queste parole sono entrate nel vocabolario inglese, perché il ristorante all’aperto, e la cottura della pasta, sono due peculiarità che nella cultura inglese mancavano e per le quali si è iniziato ad usare espressioni italiane.

Di recente, l’Economist, tra i principali settimanali di economia al mondo, ha pubblicato un articolo in cui si parlava del fenomeno italiano della Raccomandazione. Un fenomeno tutto nostro se consideriamo che la parola veniva riportata in Italiano. Attenzione, non vi era una traduzione della parola o una spiegazione della stessa. No, la parola veniva riportata così com’è. Questo significa che nella lingua inglese non esiste una parola che identifichi questo mal costume, manca cioè il riferimento culturale, manca la connotazione, che in Italia invece conosciamo benissimo. La parola recommend che in inglese significa suggerire quando viene utilizzata in un contesto lavorativo, conserva il suo significato originale: “ti suggerisco questa persona” e non sottintende come avviene da noi“ti impongo di prendere questa persona”.

Il fatto che questa parola con questa connotazione esista soltanto nel nostro Paese deve far riflettere. Accettare che quella parola sia diventata di uso comune, come se fosse naturale raccomandare qualcuno, o essere raccomandati, è la prima forma di rassegnazione e di resa. Significa farla diventare la normalità. Significa non avere alcun pudore nel pronunciarla, come bere (drink) un bicchiere d’acqua.

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