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Amy: il documentario intimista sulla leonessa di Camden

NAPOLI (di Ivano Sarno) – È prevista per il 3 luglio 2015, nelle sale inglesi, l’uscita di Amy, il documentario sulla vita di una delle artiste più talentuose e perseguitate degli anni 0 del XXI secolo: Amy Winehouse al secolo Amy Jade. 
Riguardo al suo talento c’è poco da aggiungere: riuscita com’è a rendere interessanti ad un pubblico moderno, melodie ed atmosfere di generi che oggi definiremmo di nicchia come soul, jazz e R&B; la Winehouse, con le sue tonalità sincopate e nasali, si è immediatamente creata uno spazio espressivo unico, dando vita a un modo nuovo di coniugare generi più “nobili” con le strutture più pervasive del pop, piazzandosi ai primi posti delle classifiche internazionali e facendo di uno dei suoi album, Back to Black, il più venduto del XXI secolo in Gran Bretagna.  

Amy WinehouseIl documentario è opera di Asif Kapadia, già autore del toccante Senna, lungometraggio sulla vita (e sulla morte) del celeberrimo pilota di Formula 1 Ayrton Senna morto, anch’egli, in circostanze tragiche e tristemente note.  
Kapadia si propone di narrare, il più fedelmente possibile, la vita tumultuosa e controversa della cantautrice inglese (anche attraverso tracce e filmati inediti), morta a soli 27 anni: una vita controversa come controverso è stato il processo per stabilire l’esatta causa del suo decesso, le cui circostanze restano ancora avvolte da un alone di incertezza.
In un’intervista la cantautrice dichiarò di temere il successo per la sincera paura di non riuscire gestirlo: in fondo lei voleva solo cantare, esprimendo se stessa attraverso un talento naturale che faceva parte della sua persona e che veniva fuori facilmente, a patto però che riuscisse a reggersi in piedi per dargli voce. 

L
e “insane” relazioni, le battaglie contro i media, gli eccessi e quant’altro di “rock” vi venga in mente, sono gli ingredienti perfetti del documentario oltreché del ben notoslogan” dei maledetti di ogni epoca: Live fast, die young. 
Benché Senna non passasse certo per essere un maledetto, se c’è qualcosa che ha fatalmente unito i due protagonisti tragici dei documentari di Kapadia è proprio la velocità: una velocità che li ha consumati e uccisi (sul colpo) non uccidendo però l’ipocrisia benpensante di chi si aspettava da un‘artista come la Winehouse insegnamenti di vita al pubblico che la seguiva.  
Amy Winehouse era “tutta se stessa” e la ragazza frale che ha portato in scena nell’ultima parte della sua vita è stata quella più fotografata perché più funzionale allo status di artista maledetto che, per il senso comune, non è altro se non vessillifero di eccessi. Come tutte le grandi del jazz, del soul e di tutti quei generi il cui gusto sfugge tristemente al flusso mainstream del consumo musicale, le canzoni di Amy Winehouse tratteggiano di vite distrutte dall’amore e affrante dal desiderio di qualcosa di irragiungibile come la serenità.
È anche vero però, che per certe anime non vi è agio maggiore di quello offerto dal caos e di questo
Amy Winehouse ci parlava con ogni sua singola cellula, di questo ci parlano e ci hanno sempre parlato tutti gli artisti:
di un diverso modo di intendere la vita, portandola fuori e dandola in pasto al pubblico come fosse un cadavere alla scienza; e di un mondo dove ciascuno possa avere il proprio spazio senza togliere aria agli altri, forse solo a se stessi.

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